Quando si dice Alpi, subito vengono in mente le solite località alla moda, Courmayeur, Cervinia, Cortina… In realtà, queste mete dell’industria del turismo non sono che spazi circoscritti nel ben più vasto “arcipelago alpino”.

Marco Albino Ferrari, dialogando con Tino Mantarro , accompagnerà il pubblico verso un approccio, una filosofia, un modo di pensare la montagna complesso, articolato e stimolante. Un approccio che capovolge quello che considera lo sfruttamento intensivo del turismo pesante come unica risorsa delle Alpi e di luoghi altrimenti destinati alla povertà e allo spopolamento. 

L’unica via per arginare la cultura dell’eccesso è promuovere un senso diffuso della misura”.  

Senza tentazioni idealizzanti o di ritorno a una fantomatica wilderness mai veramente esistita in Italia, dove i territori sono stati sempre (fino a un certo punto sapientemente) antropizzati, Ferrari inviterà a riconsiderare il patrimonio storico, sociale e giuridico delle Regole, attingendo al patrimonio storico e giuridico delle Regole (riconosciute come Domini collettivi dalla legge 168 del 2017) dove primeggia l’interesse collettivo. Una sorta di “terzo settore” ante litteram che si pone fra privato e pubblico.

Non c’è nessuna nostalgia di tempi andati  bensì un approccio “valorial-pragmatico” che tende a conciliare l’esigenza di creare occasioni di economia compatibile e diffusa in tutta il panorama alpino con la salvaguardia di luoghi, valli, montagne, ghiacciai altrimenti destinati allo spopolamento e alla distruzione (Marmolada docet). L’evoluzione scientifica e tecnologica oggi lo consentirebbe.

La montagna non ha bisogno di essere sacralizzata. Non preserviamo le Alpi per fissare un’immagine di pura bellezza, le preserviamo per poter vivere e lavorare in un ambiente di cui non vogliamo rovinare le caratteristiche peculiari… La conservazione della natura più consapevole si forma attraverso la pratica, sporcandosi le mani, come nell’esempio lasciatoci in eredità da Mario Rigoni Stern

È necessario un approccio alla montagna diverso dalla cementificazione ma anche dall’ambientalismo estremo. Abbiamo bisogno di un approccio “morbido” che tiene conto della possibilità/necessità di una presenza umana che si fa parte attiva dell’equilibrio naturale. Per esempio chi preserva i pascoli portandoci il bestiame e accudendolo, pascoli la cui biodiversità è molto maggiore di una foresta abbandonata? Come far coesistere questa attività con la presenza dei grandi predatori? 

Ci vuole un’azione umana, consapevole, densa di conoscenza, capace di visione.

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Foto di copertina di Alexander Nerozya