Il 16 settembre alle 18.30 il Festival delle Geografie ospiterà Matteo Meschiari, autore di Artico Nero (Edizioni Exorma). Il libro è un romanzo corale, sette storie dedicate ai popoli dei ghiacci. Analisi politica e sociale, antropologia, poesia e letteratura danno vita a un romanzo- saggio, a 160 pagine di rabbia e angoscia per un Artico nero e morente.
All’autore abbiamo posto alcune domande e tentato di individuare un possibile spiraglio di luce
D. L’Artico è stata una delle zone del mondo su cui il nostro Festival ha acceso una luce fin dalla sua prima edizione. Tematiche ambientali, questioni geopolitiche, storiche e antropologiche e, non ultimo, il fascino che i luoghi freddi esercitano ci ha spinti a dedicare sempre uno spazio specifico all’Artico, anche nel 2021. Ci è chiaro che l’idea di un luogo incontaminato, dominato dal ghiaccio e dalla natura, dalla luce o dalla tenebra senza fine, va abbandonata perché ci confrontiamo con una realtà davvero inquietante. Come scrive nell’introduzione ad Artico Nero: è all’estremo Nord del mondo che la fine del mondo sta anticipando la fine del mondo. Affermazione letteraria o brutale realtà?
R. Lo stiamo vedendo in questi mesi estivi: Canada e Siberia con temperature impensabili, peggiori delle peggiori previsioni. Nell’Artico tutto sta arrivando prima e in modo violento e visibile. Nella bolla temperata, nella nicchia urbana crediamo di essere lontani e protetti, ma tutto il peggio arriverà anche qui. Guardare al Nord o al Sud del Pianeta è un modo molto efficace per fare ipotesi di previsione. Il principio di realtà sta per prenderci a schiaffi e non potremo dire di non aver visto gli indizi.
D. Nell’elencare le terre dell’Artico – Jamalia, Lapponia, Groenlandia Canada artico, Alaska, Chukotka, Jacuzia – usa la definizione di terre di mezzo, zone di risonanza fra Oriente e Occidente. Contro le dicotomie. E’ un concetto a favore di una continuità fra esperienza umana e natura, fra esperienze di vita e di morte? Una differenza abissale con i “canoni” del pensiero occidentale e forse più simile a quelli orientali
R: Anzitutto è una considerazione geografica e geopolitica: l’Artico è una vasta bioregione omogenea, a dispetto del reticolo delle frontiere. Certamente questo aspetto ha anche una carica antropologica e simbolica, perché guardare al Grande Nord è un modo ulteriore per criticare gli stereotipi spaziali, culturali, sociali. Possiamo guardare l’Artico come una cartina al tornasole del collasso climatico, e possiamo guardarlo come un modello in grado di suggerire delle alternative. Il cacciatore-raccoglitore artico ha vissuto per millenni affrontando situazioni ambientali estreme grazie al mutuo appoggio. Nei tempi bui che ci attendono solo il comportamento prosociale ci salverà dall’uragano che abbiamo innescato.
D. Il confronto fra popoli cacciatori-raccoglitori (nomadi) e popoli agricoltori-allevatori (sedentari) pare non aver lasciato scampo ai primi. Il colonialismo si è ovunque distinto, prevalentemente, per saccheggio e devastazione culturale. Ma per i popoli artici è stato mortale. I sette racconti delle terre sopra menzionate sono quasi una sintesi della storia del “male” su questa terra: uccisioni, ruberie, stupri, conversioni forzate, stanzialità obbligata, alcol e cervelli in fumo, biologia razziale, contaminazioni nucleari, razzie minerarie. E ora?
R. E ora il collasso del sistema-terra sposterà le stesse dinamiche di stupro coloniale prima su altre etnie poi su categorie sociali più deboli all’interno dello stesso gruppo etnico, ovviamente anche qui da noi. Passeremo insomma dal suprematismo bianco al suprematismo climatico, cioè quello di coloro che avendo i mezzi per sopravvivere alla catastrofe vivranno e guadagneranno a spese di tutti gli altri. L’economia del disastro sarà l’economia forte dei prossimi decenni.
D. L’impatto del cambiamento climatico sulle terre fredde è talmente importante che ha bucato lo schermo televisivo. Scioglimento anticipato dei ghiacci, calotte, piattaforme e iceberg scomparsi, incendi in Siberia, orsi bianchi alla deriva. Il permafrost si scioglie, il terreno sprofonda, i prati diventano paludi, le strade collassano. Siamo arrivati al punto di non ritorno? Non c’è un futuro per la natura e i popoli artici?
R. Non c’è futuro per nessuno, tranne per alcuni oligarchi economici e per masse illimitate di criptoschiavi. L’Artico è un mondo finito, è come un piede in cancrena che non si può amputare perché non esiste un pianeta B. La malattia sale, sta per raggiungerci. Ma prima di estinguerci come specie imboccheremo una strada di dolore inconcepibile. Per questo occorre immaginare un’antropologia alternativa, per questo occorre far sopravvivere un’ipotesi di donna e di uomo che sappia resistere e opporsi a questo dolore.
Foto di copertina di stein egil liland da Pexels