Abbiamo da poco concluso l’edizione 2020 del Festival dedicata al tema “confini, frontiere, limiti” e a breve distanza di tempo vediamo riesplodere il conflitto del Nagorno Karabakh, nel Caucaso, amara e massima espressione di confine qui inteso come linea di divisione e limite militarizzato. Anche dopo la manifestazione di settembre, il sito del Festival vuole continuare a essere un luogo di scambio e approfondimento. Sulla base di queste intenzioni proponiamo oggi una pagina dedicata a questo ormai trentennale conflitto.
Dal 27 settembre sono ripresi dopo più di vent’anni i combattimenti in Nagorno Karabakh. Gli azeri – forti dell’appoggio della Turchia – hanno attaccato la repubblica autoproclamata a maggioranza armena. Tensioni e scontri di entità minore in questi anni non erano mancati, ma mai i combattimenti erano ripresi con la violenza di queste ore. I pochi giornalisti sul campo – come per esempio l’italiano Daniele Bellocchio – testimoniano una situazione grave: bombardamenti a più riprese e migliaia di morti e feriti.
Prima di addentrarci nell’analisi di quanto sta accadendo in questi giorni riteniamo opportuno creare un minimo contesto presentando un breve profilo di Armenia e Azerbaigian.
La situazione armena
L’Armenia è una piccola repubblica, stretta tra Caucaso maggiore e Caucaso minore, di antico popolamento, cultura cristiana e lingua armena. Il paese soffre di uno status geopolitico cronicamente fragile. Non ha sbocchi sul mare, ha due vicini (Turchia, Azerbaigian) su quattro ostili che hanno chiuso le frontiere proprio in seguito al conflitto per il Karabakh. Non ha collegamenti terrestri diretti con la Russia, paese da cui ancora dipendono la sua integrità e sopravvivenza. La strada più breve per il nord è la Georgia: la impegnativa strada militare che porta alla frontiera osseta di Vladikavkaz. Non certo una passeggiata di salute per i vecchi camion armeni.
Se questo non bastasse il paese sta fronteggiando un costante declino demografico, sono milioni gli armeni sparsi nel mondo, tanti quelli che se ne vanno, poco meno di tre milioni quelli rimasti in patria. Quasi la metà degli abitanti risiedono a Yerevan, la capitale, lasciando molte aree del paese sguarnite. I bassi tassi di natalità fanno il resto, provocando un progressivo invecchiamento della popolazione.
Il premier Nikol Pashinyan, eletto nel 2018, è arrivato al potere dopo essere stato leader dei movimenti di cambiamento che hanno preso avvio qualche anno fa con l’oceanica manifestazione di piazza definita “Electric Yerevan”. Manifestazioni rivolte contro i nuovi rincari delle bollette di luce e gas, che avevano dato il là a una protesta politica più ampia verso l’autoritarismo e la gestione corrotta realizzata per un ventennio dalla dirigenza post-comunista, di cui l’ultimo esponente fu Serzh Sargsyan, che proprio sull’onda delle agitazioni, nel 2018, rassegnò le proprie dimissioni.
Pashinyan nei primi due anni di mandato ha cercato di portare avanti i propositi del movimento che lo ha sostenuto e portato al potere: mettere fine alla lunga stagione dell’apatia post-sovietica svecchiando l’apparato istituzionale (il vicepremier attuale ha 30 anni), facendo pulizia tra i ranghi del potere e abbattendo il sistema dei monopoli che finora aveva frenato lo sviluppo dell’Armenia, condannando un terzo della popolazione a povertà ed emigrazione.
Alcuni osservatori hanno inscritto questa piccola grande rivoluzione armena dentro il quadro delle rivoluzioni colorate che hanno preso vita in questo ventennio in varie aree post-sovietiche, dal Kirghizistan all’Ucraina. Pashinyan aveva accuratamente evitato i riferimenti a quegli eventi, sottolineando come alla base della contestazione ci fossero specifiche ragioni interne al paese e non una chiave di lettura internazionale e anti-russa. Lo aveva confermato un comunicato del Cremlino giunto a breve distanza dal risultato elettorale in cui si riconosceva e rispettava il carattere “interno” della protesta.
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La situazione azera
Il vicino Azerbaigian è invece un paese turcofono, di religione musulmana sciita, con 10 milioni di abitanti, in progressivo aumento. Una repubblica democratica in cui al potere, dalla dissoluzione dell’URSS, c’è la famiglia Aliyev. Come in tanti altri casi che accomunano diverse realtà dell’Asia post-sovietica, al collante ideologico del comunismo gli Aliyev hanno sostituito una forte retorica nazionalista e una politica internazionale basata sulla vendita di gas e petrolio. Baku, la capitale, è diventata così una piccola astronave urbanistica in mezzo al deserto, un luogo strategico, un centro di relazioni internazionali: da qui partono oleodotti e gasdotti diretti in Europa, tra cui il TAP che trasporterà in Italia circa 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale. Progetti di sfruttamento energetico partecipati da tutti i principali attori internazionali dagli Stati Uniti alla Russia.
L’avvio del conflitto
Il Karabakh fu occupato nei secoli da diverse popolazioni tra cui gli albani, i persiani e infine gli armeni.
Le ragioni che stanno alla base dell’attuale guerra però vanno ricercate più recentemente, nel periodo sovietico. Dopo la rivoluzione russa del 1917, il Karabakh venne inserito nella Federazione Transcaucasica, che ben presto si divise tra Armenia, Azerbaigian e Georgia. Il territorio del Nagorno Karabakh venne rivendicato sia dagli armeni (che all’epoca costituivano i 4/5 della popolazione dell’area) sia dagli azeri. Dopo la conquista bolscevica del 1920 il territorio venne assegnato, per volere di Stalin e del cosiddetto kavburo (un comitato di studio per il Caucaso) all’Azerbaigian e nel 1923 venne creata la Regione Autonoma (oblast’) del Nagorno Karabakh. Molti studiosi hanno letto questa scelta di Stalin come ennesima applicazione del principio del divide et impera, altri come “omaggio” per mantenere buoni rapporti con la Turchia kemalista.
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta, la questione del Nagorno Karabakh riemerse. Heydar Aliyev, futuro premier dell’Azerbaigian indipendente, proprio in quel periodo aveva dato avvio all’azerificazione forzata della regione, per evitare contraccolpi nel momento in cui la protezione del vacillante impero sovietico sarebbe venuta meno. La popolazione armena del Karabakh, con il supporto ideologico e materiale dell’Armenia stessa, cominciò in quel momento a mobilitarsi per riunire la regione alla madrepatria.
In base a una legge votata a Mosca nell’aprile del 1990, se all’interno di una repubblica che decideva il distacco dall’Unione Sovietica vi era una regione autonoma (oblast’) questa aveva diritto di scegliere attraverso una libera manifestazione di volontà popolare se seguire o meno la repubblica secessionista nel suo distacco dall’URSS.
L’inizio degli anni Novanta vide numerosi episodi di violenza interetnica tra azeri e armeni. Seguirono veri e propri pogrom ad opera degli uni e degli altri e iniziarono i rientri in zone più sicure dei rispettivi territori.
Nel settembre 1991 il soviet del Karabakh, utilizzando la legislazione sovietica dell’epoca, dichiarò la nascita della nuova repubblica dopo che l’Azerbaigian aveva deciso di fuoriuscire dall’Unione Sovietica.
Seguirono quindi referendum ed elezioni, ma il percorso separatista venne bloccato nel gennaio dell’anno seguente dalla reazione militare azera, che diede inizio alla guerra tuttora in corso. Non un conflitto culturale, quindi: religione e identità restano sullo sfondo – semmai sfruttate di volta in volta dalla retorica politica in modo strumentale – la contesa è invece di carattere squisitamente territoriale.
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Costi e complessità dello scontro
Il conflitto proseguì per 3 anni pieni, fece 50.000 morti secondo le stime ufficiali e più di un milione tra profughi e sfollati. Un disastro umanitario che si concluse con un accordo di cessate il fuoco nel 1993. Un accordo che tuttavia non risolveva giuridicamente la questione e lasciava aperta la porta a una nuova ripresa delle rappresaglie, con l’esercito armeno che occupava de facto 7 regioni azere e il Karabakh che si autoproclamava indipendente. Da allora sono in corso negoziati di pace sotto l’egida del Gruppo di Minsk ma, come questi giorni tristemente confermano, senza alcuna soluzione in vista.
Gli studiosi della materia indicano due principali motivi che rendono di difficile risoluzione questa guerra: il primo di diritto, il secondo legato alla realpolitik.
Sul piano del diritto internazionale si scontrano infatti due principi altrettanto importanti: il principio di autodeterminazione dei popoli e il principio di integrità territoriale degli stati. Gli armeni leggono la controversia come la negazione – per una regione storicamente armena e abitata da armeni – del diritto di scegliere il proprio destino, unendosi alla madrepatria. Gli azeri guardano al conflitto come ad un affronto verso la loro sovranità territoriale sull’area e ritengono sia loro diritto e dovere difendersi.
La ragione di ordine pratico è legata alle forze in campo: il Caucaso è un territorio di equilibri geopolitici fragilissimi, spostare una pedina potrebbe aprire la strada a una sorta di effetto domino, tale da fare esplodere mille altre situazioni particolari. Quindi le grandi potenze e altri attori regionali, che dovrebbero intervenire in casi come questi impostando un programma di pacificazione dell’area, sono riluttanti e cercano di mantenere il conflitto in congelatore.
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Gli ultimi giorni
Osservatori come Gwynne Dyer sulle pagine di Internazionale o Thomas de Waal, grande esperto di questioni caucasiche, hanno sottolineato come in questo frangente l’Armenia non avesse alcuna buona ragione per riattivare il conflitto in Karabakh e che la prima probabile mossa sia imputabile al versante azero. L’Armenia, anzitutto, controlla già de facto tutto il territorio che rivendica, tra i due paesi è quello che se la passa di gran lunga peggio, in termini economici e militari, ha una nuova leadership che, come abbiamo visto, sta lavorando soprattutto su questioni interne e gode ancora oggi di un vasto sostegno popolare. Gli analisti sottolineano invece come la ripresa delle ostilità potesse interessare Ilham Aliyev, bisognoso di mantenere alto il consenso per prolungare il regime dinastico della sua famiglia per una terza generazione, e insieme a lui il presidente turco Erdoğan, intento nel suo progetto di espansione regionale, che già in estate aveva dato segni di ripresa. La Turchia è stata rapidissima infatti nel sostenere apertamente Aliyev all’avvio dei nuovi combattimenti, probabilmente con lo scopo di ribadire il suo crescente grado di influenza sulla regione e sul Caspio.
Dopo due settimane è stato l’intervento diplomatico russo a imporre un fragile ma necessario “cessate il fuoco”. Un intervento atteso poiché il Caucaso meridionale è ancora oggi per Mosca un territorio nevralgico all’interno del disegno di stabilizzazione dei confini che Putin persegue con una certa fatica, vista la necessità di portarlo avanti costantemente e su più campi.
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Prospettive incerte
Difficile prospettare una risoluzione del conflitto per questi territori azeri abitati e presidiati da 150.000 armeni. I diplomatici sono al lavoro senza farsi grandi illusioni. Qualcuno avanza l’ipotesi che l’indipendenza del Karabakh a fronte della cessione di tutte o parte delle sette regioni cuscinetto in mani armene potrebbe, forse, con una marcata opera di pressione internazionale, mettere in sicurezza la zona che ora versa in condizioni drammatiche e cova un proseguimento degli scontri.
Testo e immagini a cura di Alfio Sironi per il Comitato scientifico del Festival. Le carte geografiche sono tratte da Wikimedia.