
Da poco Q Code Mag ha deciso di uscire con un numero cartaceo semestrale dedicato alla “geopoetica”. Christian Elia, che della rivista è direttore, ci spiega da dove è nata l’esigenza di tornare “alla carta” e di farlo proprio a partire dal tema dei “confini”.
Christian Elia è da anni impegnato nel mettere il suo lavoro di giornalista al servizio della difesa dei diritti, specialmente quelli più fragili. Prima attraverso l’esperienza di PeaceReporter, poi fondando e dirigendo, insieme ad Angelo Miotto, Q Code Mag, una piattaforma di freelance che si occupa di esteri, cultura e diritti.
Da poco Q Code ha deciso di lanciare un semestrale cartaceo e lo ha fatto proprio a partire dal tema dei “muri”. Abbiamo chiesto a Christian di raccontarci dal suo punto di vista – quello di un reporter che spesso sui confini lavora – qual è oggi la sensazione che ha rispetto al tema delle frontiere, dei muri, dei nuovi limiti, e perché la scelta di affiancare, nel loro racconto, alla geopolitica anche la geopoetica.
Christian, se pensi alla parola confine qual è la prima immagine, tra le tante raccolte in questi anni, che ti viene in mente…
In ogni confine che ho attraversato, nonostante siano tutti differenti, esiste un filo rosso: le genti di confine. Non sono chiuse dentro, non sono chiuse fuori. Sono gli abitanti del confine, che si definiscono attorno a quello. E le immagini sono tante, legate alle popolazioni dei limiti, ma di sicuro quella che continuo a ricordare è quella di una coppia di anziani che vivevano nel villaggio di Borovo Selo, al confine tra Croazia e Serbia. Lui croato, lei serba, assieme da sempre. Avevano aspettato che la guerra passasse sulle loro vite, salve solo perché la loro casa che affacciava sul Danubio venne risparmiata per l’età avanzata dei suoi abitanti. A tanti non andò così bene. Loro raccontavano un confine altro rispetto a tutto quel che capitava loro attorno, coprendo il frastuono della violenza con i loro vecchi dischi.

Dopo anni in cui ci siamo preoccupati soprattutto di globalizzazione e villaggio globale, oggi assistiamo al ritorno in prima pagina di muri e filo spinato. Ci siamo sbagliati? Cosa vede un reporter come te che sui confini passa molto del suo tempo?
Oggi i muri sono senza storia, senza politica, sono solo feroci
Vedo un’involuzione feroce, da punto di vista umano. Che poi non è altro che una contro-narrazione del muro. La mia generazione è quella educata all’idea delle persone ‘imprigionate’ dal Muro di Berlino: chi fuggiva era un eroe. Oggi i muri sono senza storia, senza politica, sono solo feroci: servono per rendere letale un movimento che non si è fermato e non si fermerà mai. Ecco, oggi i muri non hanno neanche la dignità della storia.
Da poco Q Code Mag ha deciso di uscire anche con un numero cartaceo semestrale, il primo lo avete dedicato proprio ai “muri”. Cosa vi ha portato a scegliere quel tema?
Ci sembrava necessario ragionare su un vocabolario del presente
Ci sembrava necessario ragionare su un vocabolario del presente. Ogni numero, una parola, declinata in tutte le chiavi di lettura possibili e raccontata con ogni linguaggio. I muri sono stati una scelta necessaria, che racconta il tempo che vorremmo descrivere con parole non necessariamente nuove, ma che ritrovino un senso. Per i muri immaginavamo di poter guardare non solo ai muri fisici, ma anche a quelli mentali, economici, sociali. Perché sono i primi che devono essere messi in discussione da società che vogliono ritrovare una rotta.

Un semestrale di geopoetica. Ci piacerebbe capire perché il ritorno alla carta e che ci spiegassi cosa intendete con “geopoetica”, perché avete ritenuto necessario o interessante questo modo di raccontare.
Dopo decenni di geopolitica, che ragiona dall’alto verso il basso, abbiamo deciso di iniziare un cammino di geopoetica, che rimetta le persone al centro
La geopoetica, per noi, è una forma di ribellione. In primo luogo giornalistica. Molti di noi vengono dalla cronaca, ma l’ultima volta – almeno per me – che ho sentito di fare la differenza è stato a Gaza, nel 2009. Da quel momento in poi, e le rivolte arabe sono state l’apice di questo processo, ci sono comunità intere che hanno i mezzi per raccontarsi.
L’autoracconto diventa un elemento chiave nel giornalismo contemporaneo, con il quale bisogna fare i conti. Ecco che dopo decenni di geopolitica, che ragiona dall’alto verso il basso, abbiamo deciso di iniziare un cammino di geopoetica, che rimetta le persone al centro, invertendo il rapporto tra il macro e il micro delle dinamiche globali. E la carta è lo strumento che ci inchioda alle nostre responsabilità di reporter, in un tempo in cui tutto esiste per pochi secondi.
Il web sono i rami, ma la carta rappresenta le radici della nostra idea di giornalismo.
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Christian Elia sarà ospite al Festival per “Sguardi sul confine. Un dibattito a più voci tra geografia, filosofia e narrazione”.
Intervista a cura di Alfio Sironi per il Comitato scientifico del Festival.