Un’analisi che parte dal carcere, ma ritorna a noi in qualche modo, perché nel potere e nel carcerario siamo tutti immersi.
Intervista a Marco Nocente Dottorando in Sociologia, Università degli Studi di Milano Bicocca.
Cosa intendiamo quando parliamo di Geografia Carceraria?
La Carceral Geography nasce da un gruppo di lavoro interno all’Institute of British Geographers, il CGWG (Carceral Geography Working Group). Si tratta di un comitato inizialmente fondato da studiosi come D. Moran, J. Turner, A. Schliehe che poi è andato via via allargandosi dal Regno Unito agli U.S.A. e al Canada.
Il lavoro ha portato allo sviluppo di un filone di ricerca, oggi considerato come una sotto disciplina della Human Geography,che negli ultimi anni ha posto particolare attenzione a due svolte (“turns”) nel dibattito contemporaneo che ci permettono di comprendere meglio gli attuali mutamenti del carcere, del sistema penale e di altre forme di detenzione.
Quali sono queste svolte?
Lo spatial turn introduce lo spazio come dimensione cruciale.
I geografi carcerari considerano lo spazio come dimensione non neutra, ma come la cristallizzazione dei rapporti di potere e delle interazioni sociali. Questa svolta si colloca all’interno del dibattito più ampio dei “prison studies” nei quali, al contrario, è il tempo la dimensione centrale attraverso la quale l’idea di pena è cambiata negli anni.
Il carceral turn invece è un concetto sviluppato all’interno della discussione in corso in criminologia sull’età carceraria (carceral age).
Entrambe condividono l’idea della diffusione di una serie di misure per la “sicurezza” che sono diventate sempre più repressive ed estese, il corpo sociale è divenuto sempre più punibile.
L’idea di fondo è quella di approfondire fenomeni come l’aumento delle forme di detenzione, del numero dei prigionieri nel mondo, del proliferare di istituzioni che diventano in qualche modo tentacoli del sistema penale.
Allo stesso modo, si cerca anche di circoscrivere le pratiche di tutte quelle altre istituzioni o organizzazioni sociali che ricalcano delle logiche di normalizzazione basate sulla classificazione, canalizzazione, controllo ed eventuale esclusione dei soggetti dal consorzio sociale, ma anche incoraggiamento, condizionamento, auto-responsabilizzazione, per una condotta desiderata e prevista dal carcere.
La svolta carceraria comprende lo spazio carcerario, qualcosa che si estende attraverso il sistema penale e più in generale lungo l’arcipelago carcerario, ovvero un insieme di istituzioni (e non) che sfumano dal carcere alla società e che presentano varie forme di detenzione o logiche carcerarie, dalle carceri alle scuole. Parole chiave possono essere differenziazione, individualizzazione, premialità, punizione, compartimentazione, stigmatizzazione per citarne alcune.
In altre parole, con il concetto di carcerario mette insieme la società nella sua interezza, che di fatto è carceraria.
Gli spazi carcerari servono infatti a nascondere alla società qualcosa che non vuole essere rappresentato di essa, ma che in verità, volenti o nolenti ci è immanente.
Le due svolte carcerarie hanno ispirato diversi lavori intorno a concetti affrontati dalla geografia umana anche al di là del carcere, come la mobilità dentro e fuori dal carcere, la liminalità, la circolazione di persone oggetti, le forme di resistenza messe in atto nella vita quotidiana.
Centrale nella comprensione dello spazio è anche la relatività con la quale questo viene vissuto, aprendo quindi all’importanza dell’esperienza diretta dello spazio detentivo, favorendo anche metodologicamente, approcci che vadano ad indagare attraverso di essa il carcere.
Uno degli aspetti che caratterizza l’approccio della carceral geography, sia come pregio sia come difetto, è il concetto stesso di carcerario considerato allo stesso tempo più ampio e più dispersivo. Tuttavia, questa contraddizione è diventata anche il motore stesso con cui si cerca di avere una comprensione più complessiva tra prigione e società e tra crimine e potere.
La mia ricerca parte da questi presupposti teorici, in particolare quelli più vicini alla critica post strutturalista, quindi quella parte che si occupa del potere, di come si crea, si esercita, si controlla e si resiste ad esso.
Come si svolge il tuo lavoro di ricerca, quali strumenti utilizzi?
Utilizzo un approccio narrativo, ovvero una raccolta di testimonianze di lettere dal carcere di detenuti in lotta per le loro personali e collettive ragioni contro la direzione del carcere. Le lettere risalgono al 2006 e arrivano fino ad oggi. Sono lettere rivolte ad un collettivo politico che quasi mensilmente le ripubblica all’interno di un opuscolo, il quale viene inviato in diverse carceri italiane.
In esse vengono raccontate proteste di chi ha intrapreso uno sciopero della fame, di chi ha organizzato insieme ad altri una protesta, uno sciopero del carrello, un rifiuto di rientrare dall’aria o semplicemente quello che vedeva e pensava: come è il rapporto con le guardie, con i compagni di cella o di reparto, gli spazi dell’isolamento e dei reparti premiali con le “celle aperte”.
Chi scrive è un prigioniero, piuttosto che un detenuto, è qualcuno che vede nel carcere qualcosa da combattere perché non ne riconosce la funzione sociale o non riesce a non vedere il danno che produce a chi ne è detenuto. Di conseguenza si tratta di testimonianze di chi si pone in maniera conflittuale o almeno critica e che più di tutti e prima di tutti conosce il carcere nelle sue facce più violente e pianificatrici del controllo.
All’interno di questo scontro è possibile comprendere meglio due tendenze: da un lato l’insieme di soggetti composti dalla direzione, dallo staff e dai detenuti che producono e riproducono l’ordine detentivo, dall’altro tutto quello che sfugge a questo desiderio di controllo, che crea resistenza anche quando i margini di possibilità sono esigui.
Perché proprio le lettere dei prigionieri?
Le lettere raccontano una narrazione diversa dal carcere che va decisamente al di là della questione della sicurezza e della riabilitazione che troppo spesso appiattiscono la ben più complessa realtà del carcere. Una narrazione in cui emergono i principali mutamenti che hanno portato il carcere ad usare il bastone, la carota e il guanto di velluto. Dove il potere può essere esercitato non solo da chi sta in alto, ma da chi in basso lo riproduce facendo emergere le contraddizioni profonde di una istituzione data troppo per scontata.
Il carcere trova la sua più grande forza nell’unire e nel differenziare e punire senza che la sua legittimità venga intaccata, creando un circolo vizioso di produzione e riproduzione, di mantenimento e di legittimazione. Questa ricerca vuole esplorare quel migliaio di lettere scritte da un centinaio di detenuti le quali ognuna a modo suo ci fa capire cosa vuol dire e a cosa serve essere al di là di un confine che separa i buoni dai cattivi, il bravo cittadino dal delinquente.
Cosa ci insegna, denuncia e chiarisce il tuo lavoro?
Non sarà la presentazione di una agenda per le buone politiche per garantire una migliore pena, ma un insieme di buone ragioni per mettere in discussione il carcere e il “carcerario”, quindi le logiche e la pena.