Davvero un gran libro quello di Camanni. Emozionante, denso di storie e leggende ma anche aggiornato con gli ultimi studi scientifici sul cambiamento climatico. Ghiaccio come forma, colore, temperatura, luogo di esplorazioni e di esploratori, frontiera e linea di confine nelle trincee della Grande Guerra, testimone del limite che forse abbiamo superato.
Enrico Camanni, scrittore, giornalista, alpinista, museografo sarà con noi il 20 settembre per presentare Il Grande Libro del Ghiaccio, Laterza 2020.
Il ghiaccio non è un tema nuovo nella sua produzione letteraria. Ma in questo libri viene affrontato ad ampio raggio, senza frontiere fra le discipline. Un libro sulla storia del pianeta e della vicenda umana che trasmette una sensazione di permanente fragilità. Possiamo dire che questo è un po’ il libro della vita?
Non so davvero se questo è il libro della vita. Ma certo il ghiaccio ci racconta cosa siamo. Il ghiaccio che si è nutrito di leggende e miti, di cui sono un grande appassionato, parla anche a noi contemporanei, ispira incanto e caducità. L’acqua gelata genera solidi dalle infinite forme che crescono e si modificano, infine, fondono e scompaiono con il calore. Il ghiaccio ha quindi una durata effimera, svanisce come se non fosse mai esistito…Ma accanto a questa caducità vi è la sua persistenza, la capacità di conservare come il più affidabile frigorifero del pianeta, il suo essere archivio dell’evoluzione terrestre: il ghiaccio contiene acqua, luce, storia.
Quando e perché si inizia a studiare il ghiaccio?
Con l’Illuminismo, con il desiderio di scoprire per conoscere. Ci si chiede come si sono formati i ghiacciai, come si muovono, quando e come si sono ritirati per poi avanzare nuovamente. E si inizia dalla montagna, dalle Alpi, vicini alle terre dei pionieri glaciologi- alpinisti. L’idea che la Terra possa essere stata ricoperta di neve e ghiaccio e che l’uomo abbia potuto sopravvivere su un pianeta in buona parte gelato sconvolge le certezze delle scienze naturali e umane.
Un ruolo decisivo lo svolge Louis Agassiz, professore di scienza naturali all’Accademia di Neuchatel, di fatto il fondatore della glaiologia alpina. Lui è è il primo studioso a dedicarsi a tempo pieno allo studio dei ghiacciai alpini, enunciando la rivoluzionaria idea dell’era glaciale terrestre.
L’esplorazione parte dal ghiaccio verticale delle montagne per arrivare a quello orizzontale dei Poli. E se il primo è un’espressione della vita il secondo è quasi sinonimo di morte. Perché?
Perché i ghiacciai delle Alpi, ma anche quelli dell’Hymalaya sono piccoli, sono vicini, ci paiono a misura di umano. Il grande ghiaccio è altrove, ai Poli. E se per gli eschimesi il ghiaccio è sempre stato casa, per noi occidentali è frontiera: quella dell’esplorazione, del rischio e del tempo. Il ghiaccio ci appartiene in quanto fantasia dei popoli Alpini per i quali è stato una presenza quotidiana e insidiosa.
Numerosi sono i miti e le leggende che ha alimentato
Il mito più interessante è sicuramente quello della di città felice e rigogliosa di Felik nella valli dei Walser. Città mitica alpina che, come ho potuto costatare, andandola a cercare, è un luogo immginario esistito solo nella fantasia di quei popoli.
Ma dopo la Controriforma cattolica il mito si rovescia e il ghiaccio diventa simbolo di castighi divini: i disastri causati da valanghe, erosioni, cancellazione di paesi sono la conseguenza del peccato e della totale assenza di pietà per i peccatori.
Nel libro incontriamo molte biografie di personaggi, esploratori, studiosi e non solo. Chi sono quelli che preferisce?
Sono due esploratori/scienziati che ho conosciuto scrivendo il libro. Il primo è Fridtjof Nansen, esploratore norvegese, protagonista di un’incredibile avventura di sopravvivenza al freddo dell’inverno polare ma capace di guardare oltre la propria passione. Quando la prima Guerra mondiale irrompe nella storia dell’umanità, abbandona il suo passato e diventa attivista politico lottando contro i genocidi – quello armeno in primis – e i totalitarismi. Si occupa dei rifugiati, inventa un lasciapassare per gli apolidi, il c.d. «passaporto Nansen». Per questa sua attività, nel 1922, riceverà il premio Nobel per la pace.
Il secondo personaggio a cui sono veramente affezionato è il francese Claude Lorius, autore dei primi carotaggi in Antartide e che ad esso ha dedicato l’intera vita. E’ lui che ha dimostrato le conseguenze delle azioni umane, analizzando il tasso di CO2 imprigionato nella piattaforma. E’ lui il primo testimonial dell’emergenza climatica causata dall’accelerazione del riscaldamento globale. Ed è a lui che è stato dedicato il film La glace et le ciel, biografia cinematografica, potente e poetica, di un uomo che a 82 anni torna in Antartide a testimoniare la bellezza incommensurabile di un mare di ghiaccio e le perplessità per un futuro incerto.
“Il pianeta dovrà raffreddarsi sensibilmente nel ventunesimo secolo, altrimenti l’umanità rischia di compromettere le risorse idriche, l’agricoltura, la salute, la biodiversità e, in generale, le condizioni della vita”
Ormai conclamate sono le conclusioni sull’impatto dell’azione umana sul cambiamento climatico. Visibili a tutti i ghiacciai che si ritirano e quelli che si fondono, così come l’innalzamento dell’acqua dei mari e degli oceani. Eppure nulla sembra generare quel senso d’urgenza che porta a reazioni immediate ed efficaci. Perché non capiamo?
Pensiamo che tutti gli allarmi siano esagerati anche perché le conseguenze che subiamo sono ancora minine e perché – diciamolo – affrontare veramente i problemi correlati al cambiamento climatico, significa dover rinunciare a qualcosa. In altri contesti ciò è più chiaro e anche simbolicamente rappresentato: penso al requiem dedicato alla “morte” del primo ghiacciaio islandese, alla presenza della prima ministra.
Vi è anche una scarsa consapevolezza nei confronti delle montagne che stanne a due passi da noi?
Si, decisamente. Abbiamo accelerato troppo la fruizione comoda della montagna. Il ghiaccio è diventato una fonte di reddito ma i comprensori sciistici che vivono di questo sono in crisi, la loro sopravvivenza la stiamo letteralmente pagando tutti.
Dobbiamo invece sostenere i comprensori che stanno abbandonando lo sci o che mai lo hanno abbracciato, preferendo una fruizione lenta e rispettosa che premia la promozione della natura e dell’enogastronomia locale. La stessa valle di Cervinia sta ora recuperando la sua vocazione estiva, ridando protagonismo al Cervino-montagna.
Il sociologo Jean Baudrillard ha osservato ironicamente che
la neve non è più un dono del cielo, perché cade esattamente nei posti
contrassegnati dalle stazioni invernali
Lo stesso vale per l’alpinismo. 200 anni fa era esplorazione, oggi è un fenomeno sociale, un modo di vivere il territorio che ha anche aspetti positivi: per esempio attrae molti giovani che, però della storia della montagna e dei ghiacciai nulla sanno. Il rischio è di nuovo la trasformazione di un fenomeno sociale in un atto di consumo. Penso che per scongiurare ciò un ruolo educativo molto importante potrà svolgerlo il CAI.
Il CAI di Villasanta, sez. Andrea Oggioni, sarà presente durante la presentazione del libro al Festival delle Geografie (n.d.r.)
L’intervista ad Enrico Camanni è stata raccolta da Lorena Ferrari.