Due chiacchiere con Tino Mantarro, giornalista e reporter, su “Nostalgistan”, libro in cui attraversa e racconta gli intricati confini dell’Asia centrale.

Se c’è un luogo al mondo in cui i confini hanno giocato un ruolo importante nel definire le sorti di persone e intere comunità quello è l’Asia centrale. Bisogna tornare a decisioni di staliniana memoria, a quel principio antico, ma sempreverde, del divide et impera, per comprendere come si è creato quel coacervo di linee e gruppi etnici che oggi troviamo tra il Kazakistan e il Tagikistan.

È per queste ragioni che abbiamo invitato Tino Mantarro (nella foto) – reporter e giornalista di Touring, il mensile del Touring Club Italiano – a presentare durante l’edizione 2020 del Festival, dedicata a Confini, frontiere e limiti, il suo “Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia Centrale” (Ediciclo editore), un libro – come lo definisce lui – di “geografia applicata in forma narrativa”.

Per stuzzicare un po’ la curiosità e anticipare alcuni dei temi di cui discuteremo a settembre, oggi facciamo quattro chiacchiere con l’autore parlando del libro, dell’Asia e di alcuni consigli di lettura per l’estate.

Tino, se dovessi definire “Nostalgistan” in poche righe…

Non è un libro d’avventure, ma avventure ce ne sono; non è un libro comico, ma ogni tanto si ride; non è un saggio storico, ma qualcosa si impara. Forse è un libro di geografia applicata in forma narrativa, ammesso che esista una categoria simile. Di certo è un libro di viaggio che pur essendo leggero e scanzonato come cerca di essere Nostalgistan, dovrebbe comunque costruire una cornice storica e geografica delle terre di cui racconta.

Il minareto Kalyan, a Bukhara. Alto circa 46 metri, per secoli è stata la struttura più alta di tutta l’Asia centrale, al punto che veniva utilizzato per gli avvistamenti. Quando il mongolo Gengis Khan conquistò la città ne rimase talmente affascinato che ordinò di salvarlo dalla distruzione. (foto di Andrea Forlani)
Nei tanti bazar di Bukhara si possono acquistare i suzani, i tradizionali tappeti dell’Asia Centrale, che sono uno dei pochi oggetti di artigianato ancora realizzati nel Paese. La maggioranza delle attività artigianali è decaduta in epoca sovietica, quando tutto venne collettivizzato. (foto di Tino Mantarro)

Nella prefazione del libro dici di essere interessato in particolare a quella parte di mondo che va da Gorizia a Vladivostok: qual è per te il denominatore comune delle vaste terre tra questi due poli?

…portano ancora impressi i segni di tanta varietà e mescolanza culturale sopravvissuta agli attentati dei vari totalitarismi

Il primo denominatore comune è storico: queste terre per un cinquantennio sono tutte state governate da un’ideologia che in tutte le sue sfumature di rosso ha di certo segnato il paesaggio fisico e umano. Ma quel che più mi affascina è il fatto che fino ad anni recenti sono appartenute ad entità territoriali pluriculturali e portano ancora impressi i segni di tanta varietà e mescolanza culturale sopravvissuta agli attentati dei vari totalitarismi. Poi tutte condividono una certa imperfezione di base che va dalla screpolatura evidente di alcune città ex sovietiche, al disordine architettonico di certe città dell’Asia centrale, ma sempre con quel tocco di inaspettato che le rende affascinanti ai miei occhi. Potremmo parafrasare l’inizio di Anna Karenina e dire che le città belle si assomigliano fra loro, le città brutte sono tutte brutte in modo distinto. Ecco, questa distinzione, questa continua capacità di sorprenderti è quel che mi attira. Il che forse vale per ogni parte del mondo, ma per me qui è ancor più vero.

Come in tutte le cittadine ex sovietiche anche nel centro di Nukus, capitale della repubblica autonoma del Karakalpakstan, nell’Uzbekistan occidentale, si trova ancora una ruota panoramica cigolante e funzionante, spesso uno dei pochi divertimenti della città. (foto di Andrea Forlani)

A scuola quando (di rado) si affrontano temi inerenti l’Asia centrale si sprecano sempre storpiature e battutine di vario genere sugli ‘stan. Perché secondo te facciamo così fatica ad integrarli nella nostra geografia?

L’Asia centrale non è mai stata d’attualità da cinque secoli a questa parte

Perché in generale il nostro racconto della storia e della geografia è comunque eurocentrico e dunque del resto del mondo ce ne occupiamo ma relativamente e spesso per mode dettate dall’attualità. E l’Asia centrale non è mai stata d’attualità da cinque secoli a questa parte, è successo relativamente poco se per poco intendiamo quel poco che finisce sui nostri giornali e telegiornali assai avari di notizie dall’estero. Per cui gli Stan vengono genericamente associati se va bene all’Afghanistan, con cui hanno ben poco in comune, o a un indistinto mondo antico legato alla Via della Seta che esaurisce quel che si sa di queste terre, le quali se viste da vicino son ben più ricche di storie e di storia, che come tutte le storie del mondo se a uno interessa è bello scoprire e approfondire.

In tutti gli Stan dell’Asia Centrale il plov (o pilaf, all’iraniana) è sempre stato il piatto delle cerimonie, anche se adesso si trova quotidianamente, specie in certi ristoranti all’interno dei vari bazar. È un piatto di riso con legumi, cipolle e carne di montone al forno. (foto di Tino Mantarro)

Confini che hanno creato differenze laddove non ve ne erano mai state, scompigliando la vita di un’intera regione, mettendo barriere al fluire di genti e culture tipico di queste terre

Quest’anno al Festival parliamo di confini e frontiere. L’Asia centrale da questo punto di vista, come tu racconti in più occasioni nelle pagine del libro, è stato un grande laboratorio. Quali sono le prime immagini che ti vengono in mente al riguardo?

Se penso ai confini e alle frontiere dell’Asia centrale come prima cosa penso alla frontiera fisica, intesa come posto di controllo doganale e a quanto alle volte sia stato diciamo difficoltoso attraversarlo. Il che non è solo una storia divertente da raccontare, come pure è una volta che la dogana l’hai finalmente passata, ma se le guardiamo su piani diversi le frontiere diventano una griglia per rileggere e affrontare la storia di questi Stati-nazione nati da un tratto di penna di Stalin negli anni Venti e diventate realtà autonome dopo lo sfarinamento dell’Unione Sovietica, confini che hanno creato differenze laddove non ve ne erano mai state, scompigliando la vita di un’intera regione, mettendo barriere al fluire di genti e culture tipico di queste terre.

Attorno al caravanserraglio di Tash Rabat, che si trova a 3.200 metri di altitudine in un ramo laterale della Via della Seta che conduce verso Kasghar, in Cina, sono sorti piccoli accampamenti d yurte gestite da una associazione di turismo solidale che organizza soggiorni in famiglia in tutto il paese (foto di Jacopo Zurlo)

Decidiamo di intraprendere un viaggio perché a un certo punto della nostra vita quel posto per un motivo o per un altro è entrato a far parte del nostro immaginario

Quanto conta una certa suggestione letteraria nella scelta di partire per luoghi come questi?

Decidiamo di intraprendere un viaggio, di andare in un luogo piuttosto che in un altro, perché a un certo punto della nostra vita quel posto per un motivo o per un altro è entrato a far parte del nostro immaginario. Da decenni ormai l’immaginario lo formano i film, e dunque per noi almeno è fondamentalmente un immaginario americano: basta pensare a quanti vogliono andar a vedere il grand Canyon quando nel deserto del Mangistau in Kazakistan ci sono paesaggi assai simili e altrettanto maestosi. Ma sono paesaggi che non stimolano nessun immaginario perché nessuno li ha mai visti o resi scenario di grandi film, e dunque sconosciuti. Ecco, il mio immaginario si è formato più sulle letture, che per caso o per inclinazione, sono sempre state più orientate a quella parte di mondo, ex sovietica ed asiatica, che all’altra, americana. Dunque sì, la suggestione letteraria è stata davvero lo stimolo per andare a vedere come sono quelle terre.

La parte occidentale dell’Asia centrale, quella che va dal Caspio alle prime propaggini dell’altopiano del Pamir è in gran parte desertica. Le città sorgono all’interno di immense oasi, all’esterno è un deserto pietroso, torrido in estate, gelido in inverno. (foto di Andrea Forlani)

Per arrivare preparati a settembre, ci dai qualche consiglio di lettura?

Dunque, di Asia centrale si parla poco, ma si scrive relativamente tanto rispetto alla quantità di gente che ci va per turismo, poi certo la qualità di quel che si scrive varia, ma questo è un altro discorso. Tre libri da leggere se si è interessati a questa parte di mondo: “Il Grande Gioco”, dello storico inglese Peter Hopkirk, che è un sontuoso libro pieno di aneddoti e storie di quando quella parte dell’Asia centrale era contesa tra inviati inglesi in incognito e condottieri zaristi che cercavano di conquistare città mitiche e decadenti governate da terribili Khan. E poi i libri dello scrittore inglese Colin Thubron, “Ombre sulla Via della Seta” e “Il cuore perduto dell’Asia”, due libri di viaggio in senso classico scritti a distanza di un ventennio in cui il viaggiatore britannico peregrina per l’Asia centrale mischiando in ogni pagina grande letteratura, approfondimento storico, empatia umana e avventura quotidiana. E poi “Il Milione”, non l’originale di Marco Polo, ma il viaggio sui suoi passi che fece un trentennio fa lo scrittore anglo indiano Darlymple.

Grazie Tino, ci vediamo al Festival…


Le immagini contenute nell’articolo sono state gentilmente concesse da Tino Mantarro.

Intervista a cura di Alfio Sironi per il Comitato scientifico del Festival.