
La nostra epoca è un laboratorio contraddittorio in cui i confini sono portatori di valori multipli e possono evocare immagini molto diverse a seconda del punto di vista da cui li si osserva. In questa intervista Dino Gavinelli, geografo e attento studioso della contemporaneità, ci aiuta a fare chiarezza sul tema centrale del Festival edizione 2020.

Dino Gavinelli è professore ordinario di geografia e presidente della Scuola di Scienze della Mediazione linguistica e culturale presso l’Università degli Studi di Milano; le sue ricerche e pubblicazioni affrontano, tra molti altri, i temi della geografia culturale e della comunicazione e semiologia cartografica. A settembre Gavinelli interverrà al Festival delle Geografie con una conferenza intitolata: “Conoscere, disegnare e ripensare il confine”, un appuntamento che, a partire dalla rappresentazione cartografica, cercherà di mettere ordine tra i concetti in gioco, decostruendo alcune delle narrazioni dominanti che rischiano di banalizzarne l’analisi.
L’intervista che segue permette di avvicinarci in modo più preciso ai temi che saranno oggetto dell’edizione 2020 de Il Libro del Mondo.
Partiamo dal tema centrale del Festival: i confini sono un destino ineluttabile? Perché ne abbiamo tanto bisogno?
Il confine nell’immaginario collettivo appare come un limite statico, una frattura, una linea rigida ben visibile, con un corredo di simboli, bandiere, cartelli e soldati che certificano la fine dei poteri di controllo di uno stato sovrano che entra in contatto con un altro stato. In realtà il confine è un concetto molto ampio, dai contorni più flessibili e sfumati contrariamente a quanto la parola stessa potrebbe invece far credere. Può essere ad esempio poco visibile, non essere necessariamente una linea di demarcazione netta ma piuttosto un’area dallo spessore variabile che comprende anche aree neutrali o spazi condivisi da più stati confinanti, può assumere connotati molto diversi a seconda della regione nella quale ci si trova o del periodo storico considerato. Ad esempio, gli stati europei che hanno aderito allo spazio di Schenghen, dal 1985 in poi, hanno progressivamente ridotto il ruolo dei confini a semplici limiti politici e giuridici per favorire la mobilità delle persone e delle merci ma nell’ultimo decennio, di fronte ai fenomeni migratori o alle pandemie provenienti dall’esterno, alcuni di questi stati hanno ridato a questi confini i ruoli di barriera o di chiusura reale o presunta verso i flussi di individui, prodotti o virus.
Il confine è una creazione dell’umanità, ma non necessariamente presente in tutte le culture
Il confine è una creazione dell’umanità, ma non necessariamente presente in tutte le culture, e risponde di volta in volta al bisogno più o meno sentito di fissare, misurare, delimitare e cartografare il mondo, di dare un limite alle proprietà terriere individuali o collettive, di demarcare i possedimenti coloniali di uno stato, di decidere dove finisce una città, un’area metropolitana ecc. Per ritornare all’idea di confine portatore di valori multipli, esso può essere percepito come barriera, limite e in quanto tale può intimorire e spingere alcuni individui a non superarlo oppure, al contrario, far nascere in altri il desiderio irrefrenabile di superarlo, di attraversarlo anche illegalmente. Ad esempio il muro di Berlino che tra il 1961 e il 1989 ha separato in due parti contrapposte la capitale tedesca rispondeva appieno a questa ambivalenza di confine rigido che imprigionava la maggioranza della popolazione della Germania orientale ma che al tempo stesso spingeva una minoranza ad attraversarlo, anche a costo della vita. Infine occorre segnalare che la delimitazione dello spazio attraverso i confini viaggia di pari passo con un’altra operazione fondamentale svolta dai gruppi umani ossia quella di denominare gli spazi, di creare dei toponimi. Può così capitare che si fissino dei confini e si assegni all’area delimitata un nome, oppure, al contrario, di avere un toponimo, un nome di regione, di città e di esso si debbano cercare o delineare i confini.

“Confine”, “frontiera”, “limite”: nell’uso comune questi termini si mischiano e confondono. Dal punto di vista accademico esistono definizioni unanimemente condivise?
Anche a livello accademico la distinzione tra i tre termini non è sempre facile e univoca
Oggi, grazie alla presenza di oltre 200 stati e all’opera delle grandi organizzazioni sovranazionali, il concetto di confine non può più essere considerato in modo monolitico e, a seconda dei significati o dei ruoli che si vogliono attribuire ai confini, si usano anche altri termini come “frontiera” o “limite”. Tali termini sono usati nel linguaggio comune a volte come sinonimi, a volte per introdurre invece delle sfumature, altre volte ancora per ampliare il concetto di confine come nel caso dei confini marittimi che hanno ormai raggiunto e forse superato nella contemporaneità, nelle analisi geopolitiche e geoeconomiche, l’importanza dei confini terrestri. Anche a livello accademico la distinzione tra i tre termini non è sempre facile e univoca. Con le dovute cautele direi che il concetto di “confine” richiama le idee di demarcazione, controllo politico, linea cartografabile su una carta geografica, limite di una proprietà privata presente in una mappa catastale ecc. In quest’ottica il confine si caratterizza meglio da un aggettivo che lo accompagna (amministrativo, naturale, fisico, politico, storico, ecc.). Il concetto di “frontiera” invece implica una visione più areale, di area di transizione, di ibridazione, dove le caratteristiche di uno stato o di una regione si caricano di valori, simboli, paesaggi presenti anche nei territori collocati oltre il confine. È ad esempio il caso delle regioni transfrontaliere che mettono in crisi i concetti monolitici di stato-nazione e implicano nuove organizzazioni territoriali in termini di progettualità spaziale, cooperazioni ambientali, impieghi, trasporti, mobilità, cultura, lingua, turismo ecc. Se invece oltre il confine si estendono ambienti naturali non umanizzati o poco popolati, senza regole o con un debole controllo sociale o giuridico, allora siamo in presenza di una dimensione avventurosa, a tratti misteriosa, della frontiera (famose in questo senso la frontiera nordamericana, la Siberia russa, l’Amazzonia brasiliana, ecc.). Il concetto di “limite” è ancora più ampio, più generico perché può avere una valenza geografica (limite delle acque territoriali o limiti altimetrici ad esempio) ma anche assumere significati non geografici (si pensi al concetto di limite in matematica o a quello di limite di velocità, ecc.).
Professore, al Festival ci parlerà soprattutto di cartografia. I contributi della geografia in questi anni hanno messo in luce che le nostre rappresentazioni cartografiche del mondo, dietro l’apparenza di strumenti perfettamente oggettivi, sono in vero condizionate da visioni culturali, relazioni di potere, contesti geopolitici. Non ci troviamo davanti, insomma, a neutri supporti tecnici, ma a potenti dispositivi narrativi. È così? Ci fa degli esempi per aiutarci a capire meglio?
Negli ultimi decenni le rappresentazioni cartografiche si sono aperte alle dimensioni della comunicazione e della narrazione
Le carte geografiche, nelle loro varie declinazioni (mappe catastali, piante urbane, carte topografiche, corografiche, geografiche in senso proprio, mappamondi, planisferi, globi) continuano anche oggi, dopo millenni, ad essere delle rappresentazioni ridotte, simboliche e approssimate della Terra o di sue porzioni. Nel passato si dava più importanza alla carta come prodotto cartometrico di misure, coordinate, localizzazione di elementi e come documento di oggettività. Questo oggi continua, soprattutto negli indirizzi razionalisti della geografia attenta a usare i sistemi geografici informatizzati (GIS) e a parlare di ambienti naturali, spazi geometrici e territori creati dalle trasformazioni degli spazi naturali in spazi sociali. Negli ultimi decenni però le rappresentazioni cartografiche si sono aperte alle dimensioni della comunicazione e della narrazione, alle carte mentali degli individui, alla geografia della percezione, delle emozioni e dei comportamenti. Sono perciò studiate anche come documenti portatori di messaggi iconografici, come rappresentazioni frutto di scelte e finzioni redazionali, con finalità non sempre esplicitate correttamente. Per fare degli esempi uno stesso oggetto geografico, un medesimo fenomeno spaziale, un identico elemento ambientale può essere rappresentato, e dunque percepito dal lettore, in maniera molto diversa a seconda della scala utilizzata, della proiezione scelta, dei simboli impiegati, dell’uso del colore. Così gli squilibri, in termini di reddito pro-capite tra gli stati, possono assumere la loro drammatica vastità se viene impiegata una determinata proiezione geografica che valorizza le vaste dimensioni dei continenti extraeuropei (come nel caso della proiezione di Peters che rispetta le equivalenze tra le superfici dei diversi continenti) o che amplifica le dimensioni delle aree poste tra i circoli polari e i tropici (come nel caso della proiezione di Mercatore che, non a caso, viene spesso usata nelle cartografie europee, nordamericane e australiane). Pesano anche le omissioni di certi elementi all’interno di una carta per cui la Palestina non è certo rappresentata allo stesso modo, in termini di superfici o di toponimi, dall’ente cartografico ufficiale di Israele o nelle cartografie diffuse nei Paesi arabi.

Preparando una rassegna dedicata ai confini ci sembra, giorno dopo giorno, emerga in modo inequivocabile la grande ambiguità del tema, che lei citava poco fa. Ritorno dei nazionalismi e crisi dello stato-nazione, protezionismo e liberismo, globalizzazione dei costumi e fioritura dei localismi: viviamo in mezzo a tendenze opposte che pure crescono simultaneamente. Come si spiega?
Individui e territori devono fare i conti con le loro identità e appartenenze multiple
Come dicevo sopra, l’ambiguità tra i termini confini, frontiera e limiti genera molta confusione e ridondanza. Questi termini rappresentano oggi una sfida complessa nella vita delle persone e dei territori. Possono unire ma al contempo dividere, sono mobili e si adattano agli individui facendone circolare liberamente alcuni (i professionisti e i turisti ma solo quando non ci sono pandemie), lasciandone passare altri solo per cause di forza maggiore (i rifugiati politici, i profughi) o bloccandone altri (i migranti economici). Che si aprano o si chiudano, in ogni caso i confini e le frontiere risentono delle politiche pubbliche specifiche adottate alle diverse scale, dei colori politici dei governi, dei contesti storici, delle paure e delle speranze dell’umanità ma soprattutto del capitalismo dominante, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, della specializzazione del lavoro a scala mondiale e regionale, del ritorno prepotente di populismi di varia natura tesi a esacerbare processi politici, relazioni internazionali e transfrontaliere, forme di cooperazione o di contrapposizione tra stati. Al momento la maglia politica-amministrativa di origine medievale, nata in Europa e poi esportata progressivamente con il colonialismo nel resto del Mondo, scricchiola e mette in evidenza il futuro incerto dei nostri sistemi socio-politici e territoriali dove le forze discordanti della cooperazione e dello scambio si scontrano con quelle della chiusura e del ripiegamento alla scala locale. La nostra epoca è in questo senso un laboratorio contraddittorio dove individui e territori devono fare i conti con le loro identità e appartenenze multiple.

Infine ci consenta uno sguardo ai grandi scenari. Una delle sensazioni che ci lascia questo 2020 è che ci sia spazio per una nuova fase della leadership mondiale. La Repubblica Popolare Cinese si è dimostrata forte davanti all’epidemia da covid-19: controllo sulla propria economia, risorse scientifiche e sanitarie diffuse, buona coesione sociale e autorevolezza delle sue classi dirigenti. Gli Stati Uniti d’America invece appaiono in crisi, alla prese con una gestione irrazionale del problema sanitario e con proteste anti-razziali che da anni non raggiungevano un tale livello di scontro. Secondo il suo punto di vista – in questi anni si è occupato molto dei rapporti con la Cina e, in particolare, del tema delle Nuove Vie della Seta – siamo davanti ad un possibile cambio di colore della globalizzazione?
Andrei cauto nell’affermare che questo porterà a un cambio di colore della globalizzazione
Questa domanda è molto ampia e complessa. I grandi discorsi intorno alle “Nuove Vie della Seta” devono essere vagliati attentamente nei loro aspetti complessi e estremamente mutevoli. Da un lato sicuramente il progetto, meglio conosciuto come Belt and Road Initiative (BRI), apre nuove e ampie possibilità socio-economiche, geo-politiche e strategiche e può innescare anche interessanti processi di sviluppo locale nelle regioni e negli Stati coinvolti. In particolare rappresenterebbe un’opportunità indubbia per i diversi attori coinvolti: la Cina, ormai seconda potenza economica del Mondo, che ambisce a ruoli mondiali nei campi della cultura, dell’economia e della geopolitica; gli stati emergenti del sud-est asiatico in rapida crescita socio-economica ma anche terreno di contesa tra le potenze (Cina, USA, Giappone); l’Unione europea in cerca di nuove progettualità e nuovi spazi di collaborazione che le facciano superare alcune sue contraddizioni; l’Africa tradizionalmente subalterna ai percorsi geopolitici mondiali e oggi alla ricerca urgente di strategie utili a superare la sua marginalizzazione nel “sistema mondo”; la Russia che è geograficamente centrale nei percorsi terrestri e artici delle Nuove Vie della Seta e persegue strategie geopolitiche nuovamente ambiziose. E poi ancora il Medio Oriente, la Turchia e l’Iran in Asia, l’Australia e gli arcipelaghi dell’Asia-Pacifico, anche loro coinvolti e coautori di questa grande progettualità. E tuttavia andrei cauto nell’affermare che questo porterà a un cambio di colore della globalizzazione che a un certo punto è parsa non essere più a conduzione statunitense ma asiatica e in particolare cinese. L’ostilità crescente degli USA al progetto della BRI non è da sottovalutare, rientra nel più vasto tentativo degli Stati Uniti di impedire l’ascesa della Cina a qualsiasi costo, con ogni mezzo, senza esitare a obbligare paesi come Regno Unito, India e Giappone, per fare gli esempi più eclatanti, ad allinearsi nel compiere scelte non sempre razionali e che riveleranno alti costi in termini economici, strategici e politico-sociali. L’opzione militare non è esclusa nei “fragili” mari dell’Estremo Oriente, dove le Nuove Vie della Seta incrociano le flotte statunitensi, o nella Penisola coreana dove il confine tra le due Coree è barriera impenetrabile nata durante la Guerra fredda tra Sovietici e Statunitensi e ora adattata alle nuove tensioni tra cinesi e americane.
La prospettiva geografica nella lettura del progetto delle “Nuove Vie della Seta” rimane interessante perché capace di coglierne le sfide e le opportunità che i numerosi spazi attraversati e i diversi soggetti coinvolti saranno chiamati a cogliere con il rilancio degli antichi collegamenti tra Asia, Europa e Africa o con l’apertura di nuovi percorsi in altre direzioni verso l’Oceano Pacifico e il Mar Glaciale Artico. Ma questa stessa prospettiva induce nel contempo alla cautela e a immaginare dimensioni future del progetto ridimensionate rispetto alle ambizioni iniziali, perché le forze avverse potrebbero prevalere o condizionare fortemente il successo della BRI.
Le immagini contenute nell’articolo sono tratte nell’ordine da Pxhere, Wikipedia e Burst.
Intervista a cura di Alfio Sironi per il Comitato scientifico del Festival.