
Fausta Riva, con la sua macchina fotografica, torna a distanza di tre anni nei territori marchigiani colpiti dal terremoto del 2016, per concludere un progetto che presenterà in anteprima, a settembre, nella cornice del Festival. Parliamo con lei di questo lungo lavoro e del valore dei confini tra spazio, etica e fotografia.

Un progetto in itinere – a cui il comitato del Festival crede fermamente – e che parla di limiti e confini attraverso lo sguardo di una fotografa e geografa – Fausta Riva – sulle zone colpite dal terremoto del 2016.
Un primo viaggio nelle terre marchigiane poco tempo dopo il sisma e un viaggio in corso, tornando sui passi già dati, a ritrovare luoghi e persone casualmente incontrati lungo la strada tre anni prima. Tre anni come spazio di riflessione, per darsi tempo di elaborare, sedimentare, capire.
Il risultato di questa lenta esplorazione sarà esposto al Festival nella sezione dedicata alla fotografia.
Oggi facciamo qualche domanda a Fausta per capire come è arrivata a partire, nel 2017, per le Marche e, poi, all’idea di far maturare queste esplorazioni in forma di progetto.
Fausta, come è nata l’idea di andare nelle Marche?
Non c’era alcuna premeditazione, non avevamo in mente un itinerario e tanto meno di portare avanti un progetto. Ero a casa di Gaetano (Orazio, ndr) e parlando di questa idea di andare nelle Marche, mi disse: “è lo stomaco d’Italia”. Un’immagine che mi ha subito colpita e che mi è rimasta in mente, mi ha accompagnata. Siamo partiti senza una meta precisa.
Ho seguito da lontano quel viaggio, ho visto foto che davano un grande senso di apertura, spazi quasi americani…
La bellezza del paesaggio aperto e le strade chiuse, prima poche, poi tante. Bellezza e chiusura: una dicotomia che mi ha colpito.
La bellezza del paesaggio aperto e le strade chiuse, prima poche, poi tante strade sbarrate, limiti verso i “centro paese” diventati “zona rossa”. Bellezza e chiusura: una dicotomia che mi ha colpito. Nel 2017 avevo parlato con molte persone, senza fotografarle; da subito ho sentito la mancanza dei volti che avevo incontrato.
Al momento fotografavo istintivamente. Riguardando le immagini di tre anni fa mi sono accorta che mancano i volti, mancano le persone che pure ho incontrato. Ecco perché ho deciso di tornare quest’estate sui miei passi. Vedi (mi mostra uno schema con luoghi e riferimenti, ndr) sto cercando di ricostruire nella memoria i luoghi e le persone da cui voglio tornare. Per ritrovare alcune di loro ho pochi mezzi: scontrini, vaghi ricordi.

Tra i luoghi, però, non hai voluto mostrare, almeno per la parte di immagini che hai condiviso sui social network, i segni più evidenti del terremoto.
Forse è stata una reazione a quel che mi sono trovata davanti. I primi giorni ci siamo mossi in zone meno colpite, poi pian piano ci siamo addentrati. Andando da Montegallo lungo la provinciale 89 per Arquata del Tronto e Castelluccio abbiamo trovato la strada sbarrata, impossibile proseguire oltre. A Balzo e Castro zone rosse, ancora strade chiuse. Questo ci ha costretti più volte a modificare l’itinerario che ci eravamo prefissi. In qualche modo, è stato quello il momento che ha dato forma al viaggio: i “limiti invalicabili” fatti di strade non percorribili, di zone rosse sparse tra i centri, ci ha fatto capire cos’è stato il terremoto per quelle comunità.
Fotografare paesaggi, spazi aperti, senza mostrare i segni del terremoto è stata una reazione iniziale alle dicotomie che ti dicevo poco fa.
A volte con le immagini ho paura di parlare una lingua sbagliata
In che senso?
A volte con le immagini ho paura di parlare una lingua sbagliata. Non avevo alcuna intenzione di partecipare al turismo dell’orrore; ho preferito approfondire le possibilità del territorio, le potenzialità di un passo più lento.
In questi anni di lavoro sulla fotografia ho capito di non essere proprio tagliata per il reportage. Ho più l’indole della documentarista, ho bisogno tempo, tanto tempo per lasciar decantare e riflettere.
il lavoro finale dovrebbe essere in grado di restituire qualcosa al mittente
Qual è il confine etico tra esigenza di mostrare e rispetto per quel che si mostra?
Sinceramente, non lo so. Credo che ognuno faccia i conti con se stesso. Io penso che per me i tempi lunghi siano un buon modo per arrivare a fare un lavoro rispettoso. Non tanto il tempo in sé rende un lavoro etico: può esserlo anche un reportage fatto d’istinto. A me il tempo consente di provare a capire, entrare in contatto con i soggetti e i luoghi fotografati; il lavoro finale non dovrebbe comunicare solo ciò che tu hai visto o ciò che tu sei, dovrebbe essere in grado di restituire qualcosa al mittente, ai luoghi, ai soggetti, alle persone immortalate.

Tre anni sono stati un tempo sufficiente?
La mia formazione geografica ha formato una sensibilità per i grandi insiemi e spesso ha prevalso nel mio sguardo
Di questo lavoro immagino una pubblicazione in cartaceo: alcuni scatti del 2017 – confini chiusi, spazi aperti – un gran numero di pagine bianche in mezzo per rappresentare le strade sbarrate trovate di fronte a me, quindi le fotografie che non ho potuto scattare.
Non so se tre anni siano stati sufficienti, vedremo se sarò in grado di portare a termine il progetto per come lo immagino.
I ritratti per me sono una sfida. La mia formazione geografica – a cui devo moltissimo e a cui sarò sempre grata – ha formato una sensibilità per i grandi insiemi e spesso ha prevalso nel mio sguardo. La voglia però di avvicinarmi alle storie con il ritratto, e con approccio documentarista, mi permette di sfidarmi. Spero di riuscire quest’estate a ritrarre le persone che avevo incontrato e il cui incontro mi aveva profondamente colpita. Non sempre mi ricordo i loro nomi, ma ho perfettamente in mente le loro espressioni, quel che ci siamo detti, dove ce lo siamo detti.

Che impressioni avevano accompagnato quegli incontri?
La difficoltà di vivere nel centro dell’Italia e invece la loro resistenza, la loro infinita voglia di rinascita. Un’altra dicotomia
La prima sera del nostro viaggio ci fermammo a dormire al Camping Sibilla di Montefortino, nel parco dei Sibillini. Lì fino a poco tempo prima c’era un campo con i container per le famiglie che avevano perso la casa. Il campeggio aveva aperto da pochissimo, c’eravamo solo noi. Parlando con il gestore avevamo avvertito forte e chiara la sua ostinata voglia di rimanere lì, ancorato alla sua terra d’origine, per rimettersi a vivere, normalmente. Ho sentito in quel momento che forse erano racconti che avrei voluto condividere.
Nei giorni seguenti, dopo aver trovato chiusa la strada per Castelluccio e per Arquata del Tronto, tornammo indietro e ci fermammo a mangiare a “Lo Spuntino” di Montegallo. Il ristorante non c’era più, avevano messo quattro tavolini in uno spiazzo, in mezzo alle macerie, e avevano ricominciato. Mangiammo benissimo, fummo accolti.
La difficoltà di vivere nel centro dell’Italia e invece la loro resistenza, la loro infinita voglia di rinascita. Un’altra dicotomia.
Ecco, sono posti come questi in cui voglio tornare a distanza di tempo. Montefortino, Montegallo, Camerino, Fiastra aree che, allora, pur essendo state meno colpite dal sisma – rispetto, per esempio, ad Amatrice e dintorni – si trovavano in difficoltà. L’attenzione mediatica verso l’epicentro li aveva un po’ relegati alle periferie dell’attenzione collettiva. Le cronache locali che ho seguito in questi anni non mi hanno dato grandi speranze nella ricostruzione: un altro confine su cui spero di ricredermi.
Tra i molti progetti aperti so che ne hai anche uno “brianzolo”.
Un giorno a Milano, sfogliando i libri di una bancarella, mi capita per caso tra le mani “Brianza rimani!” di Emilio Magni e Mario De Biasi – edito da Meroni, nel 1977 – lo apro e la prima foto che trovo è una vecchia immagine di Cremella, il mio paese, dall’alto. Un segno, mi sono detta. Il libro, ovviamente, l’ho comprato e portato via con me. Ogni tanto lo sfoglio: lo trovo un lavoro prezioso. Prezioso a tal punto che da un po’ di tempo medito di costruire una sorta di omaggio ai due autori e alla nostra terra, a quarant’anni di distanza. Provare a ripensare qualcosa di simile oggi, un progetto a più voci, collettivo, che mischi immagine e pagina scritta. Il loro libro è diviso in sezioni: ville, chiese, castelli, arte, acque, genti e usi, dal cielo… come dovremmo rivedere adesso queste categorie? Cosa si dovrebbe aggiungere per restituire l’essenza di queste zone oggi? Quali sono i nuovi “segni” del paesaggio?
Quando attraversiamo luoghi che abitiamo quotidianamente rischiamo di guardare senza vedere
Sono domande non molto frequentate, mi pare.
Quando attraversiamo luoghi che abitiamo quotidianamente rischiamo di guardare senza vedere. Come se operassero dei filtri. La scommessa di un lavoro come quello che ti dicevo poco fa starebbe tutta lì: riuscire a spostare il proprio punto di vista, guardare la Brianza con lo sguardo di uno che viene da fuori.
Le immagini contenute nell’articolo sono state gentilmente concesse da Fausta Riva.
Intervista a cura di Alfio Sironi per il Comitato scientifico del Festival.